Poco più di un anno fa, dopo 15 anni di lavoro in azienda e di carriera, ho deciso di partire. Tre mesi di aspettativa, un biglietto aereo per il Sudamerica, uno zaino.

Dopo l’università ero finita per caso ad occuparmi di risorse umane, ma era stata una coincidenza fortunata. Avevo subito scoperto che era un lavoro che mi appassionava. Così ho sempre pensato di essere una privilegiata, in un mondo in cui invece la maggior parte della gente sembra accontentarsi di un lavoro che al massimo “va bene”.

Solo che, ad un certo punto, mi sono resa conto che non sentivo più quella magnifica sensazione di pienezza, di alzarsi alla mattina con l’energia della domanda “Cosa farò oggi di bello?”.

Il viaggio è sempre stato “il mio tempo migliore”. La mia fuga e il mio rifugio.

Quando dopo l’università non sapevo bene che strada prendere, all’improvviso persa dopo una vita ad essere la prima della classe, sono salita sul mio primo volo intercontinentale, per imparare cosa c’era dall’altra parte dell’Oceano lavorando come ragazza alla pari. Quando mi sentivo debole e incapace di prendere in mano la mia vita, iniziare a camminare insieme ad altre migliaia di pellegrini mi ha insegnato a scoprire la mia forza.

Ma stavolta era qualcosa di più. Era staccarsi dall’etichetta che mi ero appiccicata da sola e che mi identificava completamente con il mio lavoro.

Avevo bisogno di scoprire cosa ero, al di là del mio ruolo.

Viaggiare da sola, zaino in spalla, per migliaia di chilometri. Dagli Appennini alle Ande. Dal tango di Buenos Aires alle miniere della Bolivia, dagli edifici coloniali di Trujillo nel nord del Peru ai vulcani del Cile. E ancora il vento della Patagonia, affacciarsi ad Ushuaia sulla fine del mondo. Ogni giorno scoprire qualcosa con lo stupore di una bambina.

Il viaggio insegna ogni giorno. A chiedere, a seguire quello che succede, a usare tutti i sensi. Per una donna, soprattutto una donna da sola, forse ancora di più.

Quei 99 giorni sono stati un’avventura di ricerca di una parte che stava in disparte da talmente tanto tempo che avevo ormai il dubbio se esistesse veramente o se me la fossi solo immaginata. Prima di partire mi chiedevo cosa avrebbero pensato le persone attorno a me, avevo il timore che pensassero che ero impazzita, che stessi “buttando via tutto”. Invece non mi sono mai sentita tanto accolta quanto nel momento in cui mi sono mostrata per quella che sono autenticamente.

Sono tornata, perché avevo voglia di restituire qualcosa di ciò che ho imparato a tutte quelle persone che mi hanno detto “Vorrei avere anche io il tuo coraggio”. Ho lasciato il lavoro in azienda per darmi lo spazio per dedicarmi completamente al mio progetto. Oggi sono una coach, supporto le persone a cercare la propria espressione e realizzazione autentica. Le aiuto a riflettere sulla loro identità professionale, per cercare (e trovare!) un lavoro in cui realizzarsi veramente, o le accompagno nella ricerca dei propri obiettivi personali, per affrontare gli ostacoli del cambiamento e avvicinarsi ogni giorno alla vita che vogliono vivere.

Credo che nessuno abbia bisogno del mio coraggio. Ma sicuramente ciascuno ha bisogno del proprio.

Di (ri)scoprirlo, allenarlo, portarlo in superficie. Per costruirti una vita che corrisponda sempre più a quello che senti profondamente di essere. Per trovare il tuo modo di “essere al posto giusto”.

Magari partendo anche da un viaggio da sola.

Bastano pochi giorni, o persino poche ore. Basta superare i limiti che disegni per te stessa.

Laura Cerioli

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